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Storie di Api e Transumanza
Quelli che seguono sono dei racconti brevissimi di fatti di lavoro o di semplici visioni rimaste nella mia mente in questi anni di vita apistica dal 1981 ad oggi. Piccoli avvenimenti e immagini che affiorano alla memoria e che mi piace fermare con la scrittura e offrirle così come sono.
Il mondo si risveglia
Primi anni '80, un luogo di cui non ricordo il nome all'interno della provincia di Messina. Notte fonda, stiamo viaggiando con il Daily passo lungo della cooperativa Carestia con il nostro carico standard di 40 alveari. Sono con Vincenzo e Raffaele, andiamo a portare le nostre api in un posto nuovo: il "pizzo" di una montagna abitata da tanti alberi di castagno, e giù, molto giù, una vallata piena di rossi fiori di sulla che hanno già iniziato la fioritura. Il piano è semplice: prima si produce miele di sulla per la gioia di tanti evacuanti difficoltosi e poi fiorisce il castagno e vai con la seconda produzione! Lentamente saliamo la stradella forestale che porta proprio al "pizzo", nel percorso come al solito affossiamo, ma questa volta solo un po', usciamo velocemente grazie ad una tecnica corde/alberi/camion messa a punto con successo da Vincenzo. Pianoro in cima alla montagna, in fondo la valle con la sulla, sostegni posizionati e alveari scaricati con un po' di fatica e lentezza: Vincenzo e Raffaele continuano una animata querelle su dove si trovi il sud e dove l'est intrapresa un attimo dopo aver messo piede sul pianoro. Mi siedo sul bordo del "pizzo", con lo sguardo e la mente verso la valle e incomincio ad ascoltare i suoni del mondo che si risveglia. Campanacci risuonano con maggiore fermento, mi sembra di riconoscere giù giù persino il rumore di una seicento pastorale, cinguettii di passaggio tra l'oscurità e la luce, è l'alba e il mondo si risveglia. Purtroppo niente miele di sulla e neanche miele di castagno quell'anno sul "pizzo".
Albe a Vendicari
Tra Eloro e Vendicari, nella zona marina della barocca città di Noto i Greci avevano costruito i loro insediamenti sulle colline a pochi metri dal mare e stando fermi a casa loro, magari ruotando di 180 gradi la loro sdraio, godevano del grande spettacolo della palla di fuoco che sbuca fuori dal mar Jonio e si addormenta sui monti Iblei. In questa area ho svernato con le mie api per molti inverni e in giugno-luglio se la siccità non è stata grande ho tentato cocciutamente di produrre l'improbabile miele di timo marino.
Giugno, già del terzo millennio, abbiamo deciso con Mauri che anche quest'anno tenteremo di produrre del miele di timo a Calamosche. In viaggio col camioncino e un piccolo numero di alveari arriviamo nel posto: calma placida, un po' di umidità e qualche zanzara, luna turca e stellina in cielo. Rapidamente posizioniamo i nostri alveari sotto i tetti di una ex stalla che sappiamo darà grande sollievo alle api e anche a noi nei momenti dei lavori diurni durante la calura estiva. Pasto frugale, come al solito preparato da me, e bicchiere di vino di casa, poi in giro per i sentieri dell'Oasi aspettando l'alba dei Greci di Eloro che non smette di incantarci sui primi fiori violetti del timo.
Venti anni prima: sono a Vendicari, accanto alla ex tonnara a poche decine di metri dal mare, l'apiario e la mia 127 bianca, l'Oasi non esiste ancora: sono venuto a raccogliere l'ultimo miele di una fortunata ed irripetuta stagione, quasi venti chili di miele di timo ad alveare. I primi di agosto, è l'aurora, le primissime luci del giorno, da solo con la mia spazzolina di crine (che serve a spazzolare le api dai favi che si "prelevano") affronto milioni di api ancora un po' assopite ma memori che appena dieci giorni prima gli avevamo portato via buona parte del loro tesoro. Adesso debbo ultimare l'opera e trafugare gli ultimi favi il cui miele non era ancora maturo al momento dell'ultimo "prelievo". L'aria è densa di sale, debbo fare in fretta, spunta dal mare la palla infuocata, la giornata si annuncia torrida, dopo un po' il lavoro è ultimato ma bisogna proprio scappare, le api si sono svegliate e reclamano il frutto del loro lavoro.
Rosso neve
Maggio inoltrato a Nicosia. Con Mauri abbiamo lavorato tutto il giorno nel nostro apiario posizionato nelle ultime terre di mamma e papà Scardino, proprio in alto sulla montagna, dove la strada sembra concludersi, di fronte a una stretta rocca dove tre o quattro cavalli si fermano sempre, forse a godere del vento. Durante tutto il giorno le api sono tornate a casa zuffe del biondo polline dei fiori di sulla che si sparge su tutta la loro peluria e i nostri cuori sono colmi di felicità a vedere i favi che le api stanno ingrossando con una cera giallissima e già pieni del tenue miele di sulla. E' tardi e ci aspettano infinite curve prima di arrivare sull'autostrada Catania-Palermo, ma non rinunciamo al saluto ai signori Scardino e al figlio Antonio e ad acquistare le loro grasse provole. Ci congediamo e ci mettiamo sulla jeep già stanchi, dopo le prime curve è gia il tramonto, rosso dappertutto, nell'aria e nei prati, ondeggianti prati rossi di sulla coltivata in piena fioritura fanno rossa l'ultima e inaspettata neve sulla cima dell'Etna sospesa nel cielo in fondo al quadro.
Grande sertao
Ho finito da qualche giorno la lettura del Grande Sertao (maggiore opera letteraria di Joao Guimares Rosa, 1908-1976, uno fra i più grandi scrittori brasiliani e latino-americani). Questo romanzo mi ha travolto come le acque di un fiume in piena e mi sento ancora totalmente immerso in questo spazio magico e selvatico dell'arido altopiano nel Nord Est del Brasile. Causalità, mi chiamano al telefono dall'ONG con la quale collaboravo in quel periodo e Rosaria mi propone una missione di valutazione di un progetto di sviluppo rurale che ha come elemento tecnico centrale l'apicoltura, proprio nel Nord Est del Brasile, e proprio nel sertao!! Marzo 1997, con il pensiero alla primavera incipiente e alle mie api, ma felice di essere partito, sbarco a Salvador de Bahia. Lungo incontro con i responsabili dell'organizzazione partner del progetto e al mattino seguente partenza verso Juazeiro e da lì per Campo Alegre de Lourdes, municipio rurale nella cui area si realizzano le attività di formazione e sostegno all'apicoltura attraverso un fondo rotativo di credito. Ci dirigiamo verso località Mallada, uno dei luoghi del progetto, dove fra un paio di giorni si raduneranno gli agricoltori/apicoltori provenienti da sette località limitrofe. Pochi chilometri ci richiedono 7 ore di jeep su una pista spaccaschiena che attraversa la caatinga, formazione vegetale xerofila con alberi ed arbusti a foglia caduca che si sviluppa in queste terre di bassa fertilità su cui cadono ogni anno 750 mm di pioggia e dove la temperatura media annuale è di 25° C°.
Anselmo da Campo, saltellante settantenne apicoltore in località Mallada, un metro e sessanta per 50 chili di vitalità pura, nel mezzo del suo orto sopraelevato, modello palafitta, per via delle capre che mangiano tutto, mi racconta di come i suoi diciassette figli siano in gran parte emigrati nelle grandi città del Sud del Brasile o lavorino per la vicina frutticoltura industriale che usa l'acqua del Rio San Francisco per produrre manghi e altra frutta. Noi facciamo i figli, mi dice rivolgendosi verso la moglie, e loro se li mangiano, e dipinge in poche parole una situazione di sottosviluppo che ormai conosco in carne.
Nel tragitto dal caserio alla postazione di api, Anselmo mi dice che prima, fino alla metà degli anni sessanta, nella caatinga c'erano solo le api senza il pungiglione (le mellipone), poi arrivarono da Sud grandi sciami di api africanizzate: "pensavamo le avesse mandate il governo" mi confessa sorridendo. Mi racconta anche, che lì la gran parte del miele prodotto era fino a qualche anno fà un miele "estratto" dalla caatinga: i raccoglitori di miele andavano nel "mato" a cercare le colonie naturali di api lì installate e la "caccia", nella quale si utilizzano il fuoco ed anche insetticidi, quasi sempre finiva con l'uccisione della colonia d'api e la raccolta dei favi di miele, poi spremuti manualmente. Avevo conosciuto per la prima volta le api africanizzate in una visita didattica nei pressi di Rio de Janeiro, nel 1989, in occasione di un congresso di Apimondia, ora mi trovavo nel piccolo apiario di Anselmo nella penombra del "mato", una dozzina di arnie razionali tipo langstroth verniciate di bianco poste su sostegni singoli costruiti con grossi rami che fungono da piedistallo e che nei pressi della base hanno delle lattine cosparse di vecchio olio per impedire alle formiche di arrivare fino all'alveare.
Anselmo fa il gradasso e manovrando l'affumicatore gigante, utilizzato per poter gestire gli allevamenti di api africanizzate, avanza spavaldo, fra la luce filtrata del mato e grandi sbuffate di fumo, a maniche corte verso gli alveari. Ma il primo di questi che visitiamo lo convince rapidamente a infilarsi la tuta, così come la famiglia che popola una bella arnia a sviluppo orizzontale costruita con mattoni essiccati di paglia e fango mi convince a mettermi i guanti se proprio voglio utilizzare la mia macchina fotografica color nero pece. Un moto di stupore e di velata invidia mi coglie alla vista dei melari colmi di miele: ripenso agli ultimi anni di siccità in Sicilia e ai magri raccolti, e come se non bastasse i miei occhi si fermano sui loro improbabili telaini armati con un fil di ferro grosso quasi come quello su cui stendo i panni.